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domenica 30 giugno 2019

Padri, figli e, a volte, nipoti

Ciao giovani, oggi si conclude il weekend. In particolare, l'ultimo di giugno. Vi chiedo scusa per non aver potuto pubblicare l'intervista del venerdì, ma ho avuto problemi di salute. Non avevo nemmeno la forza per alzarmi dal letto e studiare per il prossimo esame...
Con questo post vorrei portare avanti qualche concetto sul decadimento radioattivo parlandovi di famiglie radioattive ed equilibrio secolare.

Buona lettura!

mercoledì 26 giugno 2019

Un po' di decadimenti radioattivi

Essendo un argomento molto in voga, credo possa essere interessante capire cosa accade a livello atomico durante quel temuto evento che prende il nome di decadimento radioattivo. Recentemente ho anche pubblicato un articolo - quello sulle scorie nucleari - in merito ai rifiuti speciali. Ma cosa succede in queste sostanze così temute?


Schema elementare di un atomo


martedì 18 giugno 2019

Nucleare e ambiente: due parole che non vanno molto d'accordo

Come al solito, farò una breve introduzione al post. In questo caso, vorrei farlo spiegandovi cosa sono i rifiuti radioattivi.

Si definisce rifiuto radioattivo ogni materiale derivante dall'utilizzo pacifico dell'energia nucleare contenente isotopi radioattivi di cui non è previsto il riutilizzo. Lo scarto di combustibile nucleare esausto derivante dalla fissione nucleare nel nocciolo o nucleo del reattore nucleare a fissione rappresenta la forma più conosciuta di rifiuto radioattivo, oltre che una delle più difficili da gestire in virtù della sua lunga permanenza nell'ambiente; ma anche altre attività umane portano alla produzione di questo tipo di rifiuti (es. applicazioni mediche, di ricerca, industriali...).
Durante il funzionamento del reattore, gli atomi del "combustibile" vengono progressivamente scissi tramite il processo a catena di fissione nucleare: il materiale viene man mano trasformato in altri elementi e/o isotopi e in questo modo rilasciano energia termica. Questa viene "asportata" dal reattore e utilizzata da una macchina termica per azionare meccanicamente una turbina accoppiata ad un alternatore. È in questo modo che si produce elettricità nelle centrali elettronucleari.


I prodotti di scarto di questi procedimenti hanno un pauroso impatto ambientale.
Il nuovo inventario dei rifiuti radioattivi rende evidente l'urgenza di un unico deposito nazionale definitivo per i rifiuti ad attività bassa e media e di uno temporaneo per quelli ad alta attività
Recita Le Scienze, in uno dei suoi recenti articoli. Cosa significa?


venerdì 14 giugno 2019

3. Gli appuntamenti del Venerdì: Claudia


Benvenuti al terzo episodio della rubrica del venerdì, che ha lo scopo di dare voce a voi lettori! Il tema del giorno si distacca leggermente dai soliti trattati qui. Di solito tendiamo a parlare di qualcosa di inorganico. Quello che vogliamo far emergere oggi è l’effetto che fa a Claudia la musica. Anche a lei abbiamo posto dieci di domande. Di seguito, l’intera intervista. Buona lettura!

1. Ciao, Claudia! Come prima cosa, vorremmo che tu ci parlassi un po’ di te.

Mi chiamo Claudia e ho 27 anni. Sono calabrese e, nella vita, sono studentessa universitaria di ingegneria informatica, ma attualmente sto studiando per un concorso nell’Arma. La mia aspirazione è diventare poliziotta e lavorare nell’ambito informatico. Nel tempo libero amo suonare e lo strumento che preferisco è il pianoforte che suono da 23 anni. Dedico anche le mie giornate alla lettura e mi piace molto la botanica. Mi piace tutto ciò che è arte e mi affascina la chimica.

2. Leggi riviste scientifiche? Perché?

Ogni tanto leggo riviste scientifiche, perché mi piace sapere e conoscere quello che accade sia nel campo scientifico ambientale sia didattico.

3. Ti piace ascoltare musica? Hai dei generi preferiti?

Sì, ascolto molto la musica. Forse è l’unica cosa che faccio di più. Il mio genere preferito è il Rap, ma quando si tratta di comporre qualcosa al piano mi baso su artisti classici come Beethoven o Chopin, posso dire che ascolto vari generi musicali dipende dalla giornata. Passo da musica classica al rock improvvisamente!

Tasti di un pianoforte

4. Cosa stimola particolarmente la tua percezione uditiva? Melodie tendenzialmente tristi, allegre o altro?

Posso dire che ascolto molta musica triste perché rispecchia molto il mio stato d’animo.

5. In un recente studio condotto da Bevil Conway è stato dimostrato che per apprezzare la musica e comprendere il linguaggio parlato è necessaria una capacità spiccata di percepire l’altezza dei toni armonici ed è propria della corteccia umana. Sei informata in merito? Cosa ne pensi?

No, non sono informata in merito.

6. Forse stiamo toccando un tema a te caro, parlando della musica, e proprio per questo vorremmo sapere se, per te, è più importante un approccio scientifico o sentimentale al tema, o, perché no, entrambi. Raccontaci le tue esperienze!

Per me è importante un approccio sentimentale, mi faccio trasportare molto dalla musica e quando suono non penso a niente.


Fantasia con spartiti e strumenti musicali

7. Hai mai provato a suonare e/o cantare? Ti ha divertita?

Si mi piace suonare e cantare, ho pubblicato su Youtube la mia prima canzone ufficiale in francese. Il mio canale Youtube si chiama Nuvolibeats e quando riesco a produrre buona musica mi faccio conoscere online. Attualmente sto lavorando ad un progetto e fra qualche mese esce il mio primo video musicale.

8. Sei consapevole delle analogie tra il cervello di un macaco e il nostro? Secondo te, da che cosa dipendono?

Credo che il cervello di un macaco in alcune parti sia uguale a quello dell’uomo. Credo che il macaco sia molto intelligente: capiscono molto le scimmie quando siamo a contatto con loro. Credo che il cervello sia un mistero.

9. Dopo questa intervista, proverai ad informarti meglio sull’argomento trattato? Il nostro scopo è stimolare la curiosità di tutti i nostri lettori, te inclusa!

Sì, certo, volentieri!

10.        Ultima domanda: ti andrebbe in futuro di collaborare con noi? Hai qualche progetto che vuoi condividere con tutta la community? Fai un saluto a tutti!

Mi piacerebbe molto collaborare con voi! Ciaoooo!

Foto di un macaco
Ringraziamo Claudia per aver speso qualche minuto con noi. Si è dimostrata una ragazza molto altruista e fedele ai valori dell’amicizia. I due progetti che ha deciso di condividere sono di due ragazzi che si stanno impegnando per lasciare, chi in un modo, chi nell’altro, una traccia nella vita delle persone. Da loro dovremmo prendere esempio tutti quanti: dietro una grande iniziativa, affinché possa andare bene, deve esserci sempre una grande collaborazione – un po’ come la storia del grande pennello…
Pertanto, vi invito anche io a dare un’occhiata ai due nuovi talenti: Rossella e Mathias Rat Photography, e ovviamente anche al canale YouTube di Claudia!

Buona serata a tutti!

sabato 8 giugno 2019

Errori sistematici nell’analisi per XRF

Come in ogni tipo di analisi, anche l'XRF presenta alcuni problemi, in particolare perché, come ogni raggio, anche i raggi x sono soggetti alle leggi di ottica e ai fenomeni di diffrazione, riflessione, rifrazione, e così via. In particolare, mi soffermerò sugli errori sistematici in cui spesso si incorre operando in questo modo.

Assorbimento - Come tutti i raggi, i raggi X vengono assorbiti nell’attraversare qualunque sostanza. L’assorbimento dipende dallo spessore del materiale attraversato, dalla sua densità e da un coefficiente, detto coefficiente di assorbimento che a sua volta dipende dall’elemento attraversato e dalla lunghezza d’onda della radiazione incidente. Quanto detto finora vale per i raggi X primari che incidono sul campione e vengono assorbiti dagli atomi della sostanza i quali li “trasformano” in raggi X secondari. Anche questi ultimi, tuttavia, nel loro percorso attraverso il campione sono soggetti ad assorbimento da parte degli altri atomi della sostanza, per cui la loro intensità viene almeno in parte diminuita. Quello che succede, in pratica, è che la radiazione secondaria emessa da un atomo va a interagire con altri atomi della sostanza, provocando l’eccitazione degli elettroni. Se l’energia è sufficiente a ionizzare l’atomo di un altro elemento si produce un effetto di fluorescenza secondaria, con l’emissione delle righe caratteristiche del secondo atomo. L’interazione può avvenire tra atomi dello stesso elemento (auto- assorbimento): ad esempio la radiazione Kα di un elemento può interagire con un altro atomo dello stesso elemento e fornirgli un’energia sufficiente ad espellere un elettrone dallo strato L. Per quell’elemento si avrà una diminuzione dell’intensità della Kα (assorbita per fluorescenza secondaria) e un aumento dell’intensità delle righe L. La fluorescenza secondaria può anche interessare atomi di elementi diversi.
Le rocce sono sistemi composti da molti elementi che interagiscono fra di loro causando effetti di rinforzo e di assorbimento di maggiore o minore entità a seconda delle loro diverse concentrazioni. Tutto ciò naturalmente provoca degli errori nell’analisi che non dipendono dallo strumento o dall’accuratezza con cui l’analisi stessa è condotta. Si parla in genere di effetto matrice per indicare le interazioni di un elemento chimico con la matrice (cioè con gli altri elementi che compongono il
campione).
Per ridurre l’effetto matrice si può:

  • fare uso di standard;
  • fare le analisi su perle di vetro in cui il campione viene diluito con elementi troppo leggeri per essere visti dai raggi X;
  • impostare sistemi matematici di correzione.

Effetti granulometrici - Sono errori causati dal fatto che la superficie di analisi non è perfettamente piana, ma presenta una serie di irregolarità. Se la superficie di incidenza dei raggi X primari fosse piana, sia i raggi incidenti che i raggi di fluorescenza percorrerebbero tutti lo stesso tragitto; poiché l’assorbimento è anche funzione dello spessore attraversato, anch’esso sarebbe costante. Se invece la superficie è irregolare (ad esempio perché composta da granuli piuttosto grossolani) i raggi di fluorescenza compiono tragitti di lunghezza diversa e sono pertanto oggetti a un diverso assorbimento con effetti che non possono in nessun modo essere previsti. Questo fa sì che l’analisi manche di riproducibilità: ossia se l’analisi viene rifatta anche con lo stesso metodo si otterranno dati sempre diversi. Per ovviare a questo problema è quindi opportuno che la granulometria a cui viene ridotta la polvere nella preparazione della pasticca sia il più sottile possibile. In alternativa, anche in questo caso, un buon metodo è quello della preparazione delle perle di campione fuso.

Nella figura a i raggi incidono su una superficie piana, mentre nella b i raggi incidono su una superficie scabrosa. I raggi X secondari compiono tragitti diversi all’interno del campione e non prevedibili.

L’analisi su perle si esegue su campione diluito in un apposito fondente (generalmente in rapporto 1:10), poi portato a fusione e raffreddato. Le analisi su perle rispetto a quelle su pasticche hanno il vantaggio di ridurre gli effetti di matrice (il campione è più diluito, quindi le interazioni fra gli atomi che lo compongono sono minori) e quello di offrire una superficie perfettamente liscia e omogenea. C’è però anche uno svantaggio: la diluizione abbassa notevolmente la concentrazione degli elementi. Questo è un problema per gli elementi in tracce, già presenti in quantità molto modeste nella roccia. Per questo motivo l’ideale sarebbe quello di determinare gli elementi maggiori su perla e quelli in tracce su pasticca.

Diffrattometro per polveri - Un’altra tecnica analitica che utilizza i raggi X è la diffrattometria su polveri che consente di determinare i minerali contenuti in una roccia. È una tecnica analoga a quella dell’XRF che utilizza la legge di Bragg. Mentre per la fluorescenza a raggi X, la distanza
reticolare era nota, in questa tecnica la “d” risulta essere l’incognita. I raggi X utilizzati in questo caso devono essere monocromatici, ossia con una specifica λ. Per ottenere raggi monocromatici all’uscita del tubo raggi X deve essere posto un filtro che elimina tutte le λ tranne quella di interesse. Generalmente, viene utilizzato un filtro di Ni, che elimina tutte le Kβ lasciando solo le Kα (raggio monocromatico).

Schema di un diffrattometro per polveri

Ma come funziona lo spettrometro per polveri? Di seguito, i passaggi in breve.

  • Il raggio monocromatico viene fatto passare attraverso un collimatore di ingresso (finestra di Söller). Questo concentra i raggi sul campione;
  • Il campione viene fatto ruotare e l’angolo di rotazione viene costantemente misurato da un goniometro;
  • I raggi X incidenti sul campione vengono diffratti e inviati al rivelatore;
  • Il rivelatore ruota insieme al campione ma con velocità doppia, in modo da ricevere solo i raggi riflessi secondo la legge di Bragg.


I raggi X incidenti sul campione vengono riflessi in base alla distanza reticolare del campione. La polverizzazione del campione fa sì che i raggi X primari investano statisticamente tutti i possibili fasci di piani reticolari dei minerali e per ogni minerale, quindi, si otterranno più picchi, uno per ogni famiglia di piani reticolari.

L’analisi diffrattometrica è particolarmente utile nei casi in cui i minerali sono troppo piccoli per essere identificati al microscopio per esempio, i minerali argillosi.


giovedì 6 giugno 2019

Le parti di cui è composto lo spettrometro a raggi X

I tubi a raggi X - Il tubo generalmente usato per la maggior parte delle analisi è quello a Sc- Mo (Scandio- Molibdeno). Esso è cioè costituito da due anticatodi: uno formato da un elemento relativamente leggero (Sc: n.a. 21), l’altro da un elemento pesante (Mo: n.a. 42). Il motivo di questa scelta può essere facilmente compreso se si considera il meccanismo della fluorescenza: quando un raggio X primario con una certa energia colpisce il campione ionizza i suoi atomi e questi emettono raggi X secondari di fluorescenza. Affinché si abbia la ionizzazione è però necessario che l’energia del raggio in ingresso sia quanto meno simile all’energia di ionizzazione caratteristica di ogni livello energetico dei diversi atomi: se infatti l’energia del raggio X primario è troppo bassa non riuscirà ad allontanare l’elettrone dall’atomo. Viceversa, se è troppo più alta il raggio non interagisce con gli elettroni ed esce intatto. Per ionizzare ogni elemento chimico sarebbe quindi necessario avere una radiazione primaria con una ben determinata energia, il che richiederebbe l’utilizzo di moltissimi tubi a raggi X. Si comprende come questo sarebbe enormemente dispendioso sia in termini di costi che di tempi. Per questa ragione si utilizzano tubi a doppio anodo: la radiazione proveniente dall’anticatodo di scandio è adatta per eccitare gli atomi degli elementi leggeri; l’anticatodo di Mo emette invece una radiazione più energetica, più adatta quindi per eccitare gli elementi pesanti. In questo modo con un unico tubo si riescono ad analizzare quasi tutti gli elementi. In realtà il tubo a Sc- Mo può dare problemi con alcuni particolari elementi. Questo è legato al fatto che numerosi raggi emessi dal tubo (sia dallo Sc che dal Mo) raggiungono il rilevatore: nello spettro ci saranno pertanto anche i picchi di questi due elementi, che saranno particolarmente ampi. Questo fa sì che i picchi dei due elementi possano mascherare i picchi di elementi con lunghezza d’onda vicina (e quindi diffratti per angoli simili.

Tubo a raggi x

I cristalli analizzatori - Dall’equazione di Bragg (2d sen θ = nλ) si vede che d è direttamente proporzionale a λ. La λ della radiazione emessa dagli atomi più leggeri (meno energetica) è maggiore di quella emessa dagli atomi più pesanti. E’ pertanto opportuno scegliere cristalli analizzatori che abbiano una distanza reticolare proporzionale alle lunghezze d’onda da “analizzare”. Nella pratica vengono utilizzati 4 cristalli con d diversi:
- il fluoruro di Litio LiF200;
- il LiF220;
- il PE (pentaedride, un composto organico)
- il TIAP.
Si tratta in ogni caso di cristalli sintetici il cui d è noto perfettamente ed è crescente dal LiF200 al TIAP. Pertanto si preferirà utilizzare il LiF200 per gli elementi più pesanti, gli altri cristalli per gli
elementi più leggeri. Per cambiare il cristallo non è necessario interrompere l’analisi e cambiarlo manualmente: basta preimpostare prima dell’analisi l’ordine e i tempi di utilizzo dei vari cristalli in funzione dell’ordine degli elementi da analizzare.

Collimatori - I raggi X primari vengono emessi in tutte le direzioni. Tuttavia, è importante che essi giungano sul campione seguendo un cammino rettilineo e tutti paralleli tra di loro. I collimatori primari non sono altro che
una fitta serie di lamelle che servono a eliminare i raggi che deviano dal cammino rettilineo. Un secondo collimatore (collimatore secondario) viene utilizzato allo stesso scopo per indirizzare i raggi in uscita dal cristallo analizzatore sul rivelatore. Naturalmente più le lamelle del collimatore sono fitte migliore sarà la sua azione. Tuttavia, un maggiore numero di lamelle significa anche una maggiore quantità di raggi eliminati, il che può essere un problema per gli elementi presenti in scarse quantità o per quelli leggeri. Per questa ragione si usano due tipi diversi di collimatore: “coarse”, ossia con alta distanza tra le lamelle (2000 lamelle in 2 cm) e “fine” (4000 lamelle in 2 cm). Il primo viene utilizzato per gli elementi in traccia o per gli elementi leggeri, il secondo per gli elementi maggiori o pesanti.

Rilevatori - Il rilevatore deve trasformare i fotoni X in arrivo in un segnale misurabile; questa trasformazione deve naturalmente essere proporzionale, ossia ci deve essere sempre la stessa relazione tra numero di raggi in arrivo e segnale in uscita. Negli strumenti più comuni si utilizzano due tipi di rilevatori: quello a flusso di gas e quello a scintillazione.

Rilevatore a flusso di gas - Consiste in un tubo catodico con un anodo rappresentato da un sottile filo di Tungsteno che passa al centro del tubo. Tra il filo e il tubo viene applicata una differenza di potenziale ΔV. Il tubo ha in alto una finestra di Mylar, (un materiale trasparente ai raggi X) da cui entrano i raggi provenienti dal cristallo. Un’altra finestra di berillio consente l’uscita dei raggi X in modo tale che non venga prodotta radiazione secondaria da parte del rilevatore stesso. Nel tubo viene fatta scorrere una miscela costituita dal 90% di Argon e dal 10% di metano.

I raggi X provenienti dal cristallo entrano nel tubo e ionizzano le particelle di Argon, formando una coppia: e- e Ar+. All’interno del tubo viene applicata una differenza di potenziale, cosicché gli elettroni vengono accelerati verso il filo di tungsteno. Nel loro moto verso il filo gli elettroni ionizzano altri atomi di Ar producendo così un numero sempre maggiore di elettroni (effetto valanga. L’effetto valanga fa sì che il segnale iniziale venga amplificato.
Gli elettroni che ricadono sul filo elettrico inducono nello stesso una differenza di potenziale momentanea che causa un impulso elettrico la cui intensità può essere misurata. In realtà la corrente che si genera è così bassa che prima di essere misurata è necessario amplificare il segnale. Con questo sistema i fotoni X in ingresso sono stati trasformati in impulsi elettrici che possono essere letti. La trasformazione naturalmente è proporzionale: maggiore è il numero dei raggi in ingresso maggiore sarà il numero di elettroni prodotto, quindi maggiore sarà l’impulso elettrico misurato. Mentre gli elettroni sono accelerati verso il filo elettrico (anodo) gli ioni Ar+ sono accelerati verso
le pareti del tubo (catodo). Il metano nella miscela serve ad evitare che gli ioni la colpiscano generando effetti di moltiplicazione che andrebbero ad alterare i dati dell’analisi. Il metano cioè cede un elettrone all’Ar+ che si ritrasforma in Ar. Il processo di neutralizzazione degli ioni Ar+ da parte del metano è molto più lenta dell’arrivo degli elettroni sul filo. Finché il processo di neutralizzazione non è completo non ci può essere un’ulteriore ionizzazione da parte dei raggi X in ingresso. Esiste pertanto un tempo morto durante il quale i raggi X in arrivo non vengono rilevati dal detector. Questo provoca una sottostima degli impulsi che sarà tanto maggiore quanto maggiore è il tempo morto. Il tempo morto è una caratteristica nota di ogni detector; è quindi possibile apportare le opportune correzioni ai valori misurati tenendo conto di questo fattore. Queste correzioni vengono in genere fatte automaticamente dallo strumento.

Rilevatore a Scintillazione - I raggi X che entrano nel contatore incidono su un cristallo di Ioduro di Sodio (NaI) drogato con Tallio (Tl). Il Tl è un metallo di transizione e come tale può avere più stati di valenza; quando è colpito dai raggi X incidenti passa al suo stato di valenza più alto accumulando energia. Quando poi torna nel suo stato “normale” cede l’energia accumulata sotto forma di radiazione UV: la sostanza si comporta cioè come un fosforo. Dietro il cristallo è posto un fotocatodo che trasforma la radiazione UV in elettroni. L’efficienza di questo sistema è molto bassa, tanto che il segnale deve essere amplificato più volte tramite una serie di dinodi prima di essere scaricato sul circuito elettrico.
In entrambi i tipi di contatore, dunque, un fotone di alta energia (raggi X) viene trasformato, in maniera proporzionale, in un impulso elettrico la cui intensità può essere misurata. La differenza tra i due rilevatori sta soprattutto nell’efficienza: il contatore a flusso di gas ha un’efficienza maggiore di 3 o 4 volte rispetto quello a scintillazione. Di conseguenza si preferisce utilizzare il contatore a flusso di gas per radiazioni X di bassa energia (ossia corrispondente a elementi leggeri):
infatti esponendolo a radiazioni troppo energetiche si può rischiare di farlo andare in saturazione. Per queste ultime è quindi preferibile utilizzare il contatore a scintillazione. Si consideri anche che quest’ultimo ha il vantaggio di presentare tempi morti molto più bassi che nel caso precedente.

L’analisi quantitativa - Qualunque sia il tipo di rilevatore utilizzato quello che essi misurano non è direttamente la concentrazione dell’elemento ma degli impulsi elettrici la cui intensità sarà proporzionale alla percentuale dell’elemento che l’ha prodotta. Avremo cioè che la concentrazione di ogni elemento sarà pari all’intensità misurata moltiplicata per un fattore di proporzionalità k. Per trasformare le intensità in concentrazioni degli elementi corrispondenti, ossia per determinare il valore di k, è necessario fare uso degli standard, ossia di sostanze la cui composizione in termini di concentrazioni dei vari elementi è perfettamente nota. Misurando nei diversi standard l’intensità dell’impulso elettrico prodotto da un determinato elemento di cui si conosce la concentrazione si possono costruire le rette di taratura per i vari elementi.

Curva di calibrazione

Tramite queste rette, una volta misurata l’intensità dei picchi nel campione si può risalire alla concentrazione dell’elemento corrispondente. Gli standard servono anche ad eliminare una delle fonti di errore di questo metodo analitico, ossia l’effetto matrice.

martedì 4 giugno 2019

Il principio di funzionamento dell’XRF (spettrometria per fluorescenza a raggi X)

La XRF è una tecnica analitica non distruttiva che viene usata per la determinazione della composizione chimica della roccia. Durante l'analisi il campione viene bombardato con un fascio di raggi X primari ottenuti in un tubo catodico secondo il meccanismo precedentemente illustrato. Quando gli atomi della sostanza da analizzare vengono colpiti dalla radiazione primaria avvengono le stesse interazioni con la materia che si hanno quando una sostanza viene colpita dal fascio di elettroni. Quello che succede è che gli atomi della sostanza colpita da raggi X primari emettono altri raggi X, detti appunto secondari per distinguerli da quelli incidenti; in particolare quando i raggi X primari scalzano dai livelli energetici più interni di un atomo un elettrone, il posto di questo viene occupato da un elettrone dei livelli superiori con emissione di raggi X secondari aventi lunghezze d’onda caratteristiche dell’elemento in questione. Contrariamente al caso del tubo a raggi X in cui la radiazione incidente era data da elettroni, quando questa è rappresentata dai raggi X primari, l’effetto di fondo è trascurabile (i raggi X hanno infatti energia molto maggiore degli elettroni, per cui è quasi sempre possibile che avvenga la ionizzazione). Un campione di roccia è costituito da moltissimi elementi chimici, ognuno dei quali, una volta colpito da raggi X primari emette i raggi X secondari con le proprie lunghezze d’onda caratteristiche. Poiché tutti gli atomi della sostanza vengono colpiti simultaneamente in uscita ci sarà una radiazione X secondaria policromatica, ossia costituita da lunghezze d’onda variabili. Affinché possa essere fatta un’analisi quantitativa è necessario separare le radiazioni provenienti dai diversi elementi in modo poi da poterle “contare”. Quando il fascio di raggi X policromatici in uscita dal campione vengono fatti incidere su un cristallo con una certa distanza reticolare d, per ogni angolo di incidenza verranno riflessi solo i raggi con una λ tale da soddisfare la legge di Bragg.
Questo è proprio quello che avviene all’interno dello strumento, infatti, l'analisi per fluorescenza ai raggi X può essere schematizzata come segue:
• Il tubo a raggi X genera i raggi X primari che colpiscono la sostanza da analizzare. Gli atomi del campione vengono così eccitati ed emettono energia sotto forma di raggi X secondari.
• I raggi X secondari vengono fatti passare attraverso un collimatore primario, formato da una serie di lamine piano-parallele. La sua funzione è di rendere paralleli i raggi secondari che altrimenti formerebbero un cono.
• I raggi così "raddrizzati" sono fatti incidere su un cristallo analizzatore di cui sono note le caratteristiche. Il cristallo può essere fatto ruotare in modo che i raggi secondari incidano su di esso con un angolo θ sempre diverso. Un goniometro misura tale angolo.
• Il cristallo, per ogni angolo θ riflette solo i raggi con una λ ben determinata. Questi sono fatti passare per un collimatore secondario che li indirizza al sistema di rilevazione (detector).
Questo sistema di rilevazione dei raggi X, che vengono discriminati in base alla loro lunghezza d’onda, viene detto a dispersione di lunghezza d’onda (WDS Wave Dispersion System).

mercoledì 22 maggio 2019

Porosità per tutti

Un lettore del blog mi ha segnalato alcune difficoltà che ha riscontrato nel leggere l'articolo sulla porosità. Purtroppo devo ammettere che ho usato dei termini un po' tecnici che chiaramente destabilizzano chi, come lui, non è avvezzo a materie scientifiche. Per questo mi sono posta l'obiettivo di scrivere un articolo sulla porosità, simile al precedente, ma dando spazio più alla divulgazione che alla scienza. Cercherò, con termini semplici, di spiegare quello che volevo dire prima utilizzando formule, immagini e parole difficili! Buona lettura!

Ogni oggetto, anche quello che appare più compatto, è in realtà poroso. Proprio come una spugna, una parte del suo volume è occupato da piccole cavità. Queste sono dovute o a gas intrappolato, o a fessure dovute a ritiro (come l'argilla che, esposta al sole o cotta, a volte si crepa), o a spazi intergranulari, ossia spazi dovuti alla disposizione puramente geometrica delle particelle che compongono il dato oggetto. Queste cavità costituiscono quello che si chiama volume dei vuoti e in gergo viene abbreviato con Vv. Rapportandolo al volume totale (V) occupato dall'oggetto in studio, otteniamo un numerino che si chiama porosità.
La porosità totale è la somma della porosità aperta e quella chiusa. Cosa vuol dire? Esistono due definizioni che danno un senso a questa semplice addizione. Quando parliamo di porosità in generale, intendiamo tutto lo spazio vuoto presente in un oggetto. La porosità aperta, invece, tiene conto solo dei pori in comunicazione tra loro, cioè indica quella parte di "buchi" che possono contenere fluidi, tipo acqua, che siano in grado di muoversi sotto l'effetto della forza di gravità all'interno dei fori stessi (un po' come se fossero delle gallerie che vanno sempre verso il basso), mentre la porosità chiusa possiamo immaginarla come una bolla all'interno dell'oggetto che non comunica con nessun poro.
La porosità ha dei nomi diversi anche in base alla sua origine: può essere, quindi, primaria o secondaria, a seconda che i vuoti presenti si siano originati contemporaneamente all'oggetto che li contiene (i forellini di una spugna), oppure successivamente (le crepe di un'argilla che viene cotta) a causa di fessurazioni, fratturazioni, processi chimici, processi meccanici, escursioni termiche.
Infine, esiste anche la porosità interparticellare, che si ha tra le particelle dell'oggetto e quella intraparticellare, esistente all’interno dei corpi delle particelle.
Secondo la suddivisione IUPAC, i pori si classificano in base alle loro dimensioni in:
- macropori: più grandi di 50 nm;
- mesopori: di ampiezza compresa tra 2 e 50 nm;
- micropori: più piccoli di 2 nm.

Questo è quanto. Non mi dilungo sulle tecniche per calcolare la porosità perché entrerei nello specifico caso di rocce e suoli, e questo sarebbe poco comprensibile per chi non usa spesso formule,  strumenti di misura, tecniche analitiche e laboratori, ma sono sempre aperta ad aggiungere qualcosa se richiesto. Spero di essere stata meno criptica per chi si avvicina per la prima volta a questo mondo.
Buona serata!

domenica 19 maggio 2019

Espulsione di massa coronale del Sole e aurora boreale

Da oggi il blog prende una piega diversa. Dopo qualche nozione matematico-fisica, vorrei orientarlo su discussioni di temi attuali in quanto anche la scienza, come le altre materie esistenti al mondo, è con noi ogni giorno e si cela dietro eventi che spesso diamo per scontati.

Un’espulsione di massa coronale ha centrato la Terra la sera del 24 marzo, ma non ha dato vita a una tempesta geomagnetica poiché troppo debole. Il fenomeno è legato alla proiezione di plasma e radiazione elettromagnetica dall’atmosfera del Sole verso il nostro pianeta, e può dar vita a problemi radio e satellitari, oltre che ad aurore polari insolitamente affascinanti.
Questo è quanto recita un articolo di scienze.fanpage.it. Ma cosa significa tutto ciò?
Partiamo dal vedere, come al solito, qualche definizione. Una espulsione di massa coronale è una espulsione di materiale dalla corona solare, osservata con un coronografo in luce bianca. Il materiale espulso, sotto forma di plasma è costituito principalmente da elettroni e protoni, viene trascinato dal campo magnetico della corona.
Fortunatamente, il plasma sprigionato non è stato sufficiente a causare una tempesta geomagnetica che, effettivamente, avrebbe altrimenti causato danni enormi.

Come recita Focus:
Tutto inizierà con una fantastica aurora boreale. Ma sarà l’ultimo momento di gioia prima di anni di sofferenze. Potrebbe succedere un giorno qualunque. Ma quasi sicuramente in un anno in cui il ciclo un decennale dell’attività solare è al massimo. Poco dopo l’apparizione dell’aurora, le luci di casa cominceranno a tremolare, la tv farà fatica a sintonizzarsi. Qualcuno farà in tempo a controllare online l’arrivo di una violenta tempesta magnetica. Poi tutto si spegnerà. E sarà il black out totale.
Risultati immagini per aurora boreale
Aurora boreale che non tutti sanno cosa sia, nonostante il tempo che si passa a guardarne foto o a programmare viaggi per vederla dal vivo. Il colore dell’aurora boreale dipende da quali ioni sono presenti. Le aurore polari si creano quando le particelle cariche di vento solare entrano in contatto con la ionosfera terrestre. L’atmosfera del nostro pianeta è composta per lo più di ossigeno e azoto, ma alle altitudini in cui le aurore si verificano (a partire da 100 km di quota) l’ossigeno è il gas prevalente. Quando gli atomi di gas sono investiti dalle particelle cariche di vento solare, acquistano energia, che poi cedono, rilasciando fotoni di diverse lunghezze d’onda. Gli atomi di ossigeno emettono luce verde e talvolta rossa; quelli di azoto, bagliori di colore rosso intenso, blu e viola.
La Terra non è l’unico osservatorio ideale di tale fenomeno. Le sonde Voyager 1 e 2 l’hanno fotografato anche ai poli di Giove, Saturno, Urano e Nettuno; dopo di loro, anche Hubble ha iniziato una lunga serie di avvistamenti (qui vediamo potenti aurore ai raggi X osservate ai poli di Giove). Le aurore extraterrestri sono spesso molto spettacolari per via dell’intensità dei campi magnetici dei rispettivi pianeti. Quella di Urano ha caratteristiche uniche, perché il pianeta ruota inclinato di lato, ma il suo campo magnetico è pressoché verticale. Nel caso di Urano, le aurore polari somigliano più a puntini di luce, che ad anelli.
Sono visibili anche lontano dai poli. Le particelle cariche di vento solare scivolano lungo le linee del campo magnetico terrestre, che si comporta come uno scudo, schermando il nostro pianeta dalle radiazioni dannose. Poiché le linee di campo convergono in prossimità dei poli (anche se non esattamente in corrispondenza dei poli geografici), in questi punti – 60°-70° di latitudine – le aurore si verificano con particolare frequenza. In caso di intensa attività solare, si possono osservare anche a latitudini inferiori, come a quelle scozzesi, ma anche a Londra e Pechino. Per vederle, però, occorre trovarsi in un luogo al riparo dall’inquinamento luminoso, una circostanza assai rara, per un’area metropolitana.

Dal punto di vista fisico il fenomeno che “accende” le aurore è del tutto analogo a quello che fa funzionare le lampade al neon, dove gli elettroni eccitano gli atomi di un gas rarefatto rendendolo incandescente, il tutto a basse temperature (rispetto a quanto avviene, per esempio, con una lampada a incandescenza).
Le aurore sono in genere molto tenui, e alcune lunghezze d’onda, come quella del rosso, sono al limite della percezione dell’occhio umano. Le fotocamere sono spesso più sensibili, specie se sfruttate in foto a lunga esposizione, lontane da fonti di luce interferenti.
Si può prevedere l’intensità dell’attività magnetica solare, e si conoscono con buona approssimazione le aree solitamente più soggette al fenomeno. Ma è impossibile sapere in anticipo quale direzione assumeranno le espulsioni di massa coronale solare, gli eventi che più frequentemente danno origine alle aurore, finché queste non si verificano. Questo rende l’appuntamento con le aurore polari una fortunata combinazione di eventi, una circostanza mai scontata e, per questo, ancora più magica.

Alle 22:52 di domenica 24 marzo la Terra è stata investita da un’espulsione di massa coronale (CME), ma il plasma sprigionato dalla nostra stella non ha innescato una tempesta geomagnetica poiché troppo debole. Nonostante al momento non siano stati registrati problemi, effetti geomagnetici di ridotta intensità potrebbero verificarsi durante la giornata del 25 marzo, mentre il nostro pianeta attraversa il flusso di particelle ad alta energia “sparato” dal Sole. Fra essi vi sono anche spettacolari aurore boreali. Blackout alle comunicazioni radio e disturbi ai sistemi satellitari sono ancora possibili in particolar modo al Polo Nord, dunque sono stati avvisati tutti i piloti che si troveranno a volare nell’area in queste ore.
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